Nel nostro paese e’ pericolosamente vicino all’impossibile riuscire a farsi pubblicare un album. Se si e’ musicisti, in Italia, e’ statisticamente piu’ probabile essere coinvolti in un frontale con un pachiderma nella trasferta verso la balera di Bubbiano, che essere scritturati dalla Sony. Lo dico, certamente, con un velo di amarezza e risentimento, ma anche con un atteggiamento piuttosto “filosofico”, in quanto questo costituisce per me un dato di fatto osservabile ed innegabile; una verita’ quasi scientifica, come la sfericita’ del globo terrestre o la crescente popolarita’ del binomio sandalo-calzino.
Riconosco che parte della colpa del mio personale insuccesso in questo campo stia nel fatto che faccio un genere di musica, il jazz, che non interessa praticamente a nessuno. Alla voce “cause” di questo effetto di carenza di varieta’ nella produzione discografica italiana potremmo, inoltre, contemplare la leggendaria “crisi”. Tuttavia non credo che questo sia stato un fattore determinante nel delineare la parabola discendente che, in ambito discografico, ancora trascina verso il basso i musicisti. Personalmente, credo che ci sia stata una perversa evoluzione delle modalita’ e motivazioni di acquisto del prodotto “musica” da parte del consumatore medio.
Innanzitutto fare un disco, nell’ottica della musica come business e industria (che pur disgustandomi moralmente, riconosco sia una finalita’ ammissibile), ha senso se esiste concretamente una previsione sulla possibilita’ che questo disco si riesca a vendere. Ovviamente questo implica che qualcuno, tantissimi “qualcuno”, debba comprarlo. Chi compra, pero’, non lo fa piu’ “a scatola chiusa” o “sulla fiducia” che il contenuto sia di qualita’. E questa probabilmente e’ la diretta conseguenza di una serie di decenni, dalla meta’ degli anni ottanta direi, durante i quali, nell’ambito della musica pop, sono stati prodotti album essenzialmente costituiti da “singoli”, intervallati da un’alta percentuale di brani mediocri, rendendo l’acquisto dell’album un’esperienza fondamentalmente deludente.
A questo cambio climatico il pubblico ha reagito nelle modalita’ consone ad ogni specie in difficolta’: in parte estinguendosi (semplicemente non investendo piu’ nella musica), oppure adattando l’ambiente a se circostante (trovando metodi alternativi, gratuiti per usufruire dello specifico prodotto desiderato), ed infine cambiando se stesso ed il proprio modo di concepire la musica (e il perche’ comprarla). Mancando essenzialmente il contenuto musicale come stimolo all’acquisto, chi compra deve comunque sviluppare una connessione con l’oggetto per arrivare al desiderio di possederlo. E l’industria, lesta dietro la sua preda, ha capito che quello che era diventato importante era concentrarsi sui preliminari.
Attrarre il consumatore con una serie di dettagli di contorno, succulente anticipazioni, di carattere assolutamente svincolato da ogni aspetto musicale (reso dall’industria stessa palesemente irrilevante). Oggi, infatti, il pubblico ha bisogno di sapere chi suona (lo dico impropriamente, perche’ di solito interessa solo chi canta e basta), da dove vengono, e soprattutto quali strazianti vicende famigliari e personali li abbiano portati in maniera cosi’ commovente e genuina a scoprire e condividere il loro puro talento. In questa era di consumismo post adolescenziale un acquisto a “sveltina”, per curiosita’, per divertimento o per noia che sia, del prodotto musicale, non basta piu’. Vogliamo sentirci non artisticamente, ma umanamente coinvolti.
Perche’ se in tempi passati un certo grado di “studio” e documentazione previa alla spesa per un album costituiva un godurioso e “nerdistico” passaggio preparatorio all’atto in questione, i gia’ citati preliminari di oggi hanno, al contrario, carattere esclusivamente aneddotistico. Perche’ di questi “artisti” quello che sappiamo e che i non musicisti comprendono e’ esattamente quello che, ad esempio, ci mostra di loro la televisione, in questi pietosi format ad acquario di casi umani. Di modo che, ciondolando una domenica pomeriggio fino al primo, strategico scaffale di una qualsiasi Feltrinelli, il disco del piu’ simpatico, bello, sfidato dalle insidie della vita e tuttavia risorto, sara’ il disco che il pubblico generico comprera’.
L’industria musicale, di fatto, non esiste piu’ perche’ non si occupa piu’ di musica, una parola che ora costituisce meramente il 50% della sua denominazione formale, ma di tutto quello che porta al “succedere” della musica senza che la musica importi. Cosa resta a noi che questo mestiere lo facciamo, o perlomeno tentiamo di farlo, con sacrifici, fede ed auto convincimento sconosciuti anche alle piu’ ascetiche suore di clausura? I talent, la paghetta dei nonni o la botta di culo.
PS: non voleva questa essere una auto-pubblicita’, ma un banale sproloquio semi impegnato. Tuttavia mancano pochi giorni alla fine del crowdfunding del mio album. Quindi, prima che io raccolga il metaforico piattino dal metaforico marciapiede, vi invito ad informarvi, ed eventualmente a supportare, il mio progetto, seguendo questo link (tanto a XFactor non ci vado):